Il paradosso dell’ufficio contemporaneo
C’è un paradosso nel workplace contemporaneo. L’hybrid working ha trasformato l’ufficio da luogo obbligatorio a destinazione da scegliere: spazi ridimensionati, presenza selettiva, prenotazioni necessarie. Chi decide di recarsi fisicamente in ufficio compie una scelta deliberata, affronta uno spostamento, investe tempo ed energia. Eppure, una volta arrivato, si trova spesso in un ambiente che non riesce a offrire ciò che giustificherebbe quello sforzo.
A casa la concentrazione è possibile, talvolta persino più facile – niente colleghi che interrompono, niente telefoni che squillano sulle scrivanie vicine. Ma la casa porta con sé altre forme di dispersione: la domesticità che richiama, i confini sfumati tra vita e lavoro, l’assenza di una struttura che segnali “questo è tempo di focus”. L’ufficio potrebbe essere esattamente quel luogo: uno spazio progettato per sostenere il lavoro cognitivo, libero dalle interferenze domestiche, dotato di risorse e configurazioni impossibili da replicare in un appartamento. Il problema è che spesso non lo è. Troppi uffici offrono il peggio di entrambi i mondi: le distrazioni sociali dell’ambiente condiviso senza le condizioni per la concentrazione profonda.
Il punto non è nuovo, ma la sua rilevanza strategica sì. In un’economia dove il valore si genera sempre meno attraverso compiti routinari e sempre più attraverso attività cognitive complesse – analisi, sintesi, problem solving, creatività – la capacità di sostenere la concentrazione prolungata non è più un “nice to have”. È un vantaggio competitivo.
La domanda, quindi, non è se gli uffici debbano supportare la concentrazione, ma come progettarli affinché lo facciano sistematicamente.
Il costo cognitivo delle interruzioni: cosa dicono i dati
Prima di esplorare le soluzioni, vale la pena comprendere la dimensione del problema.
Uno studio dell’Università della California a Irvine condotto dalla professoressa Gloria Mark ha rilevato un dato significativo: dopo ogni interruzione, sono necessari in media ventitré minuti per recuperare il livello di concentrazione precedente. La matematica è impietosa: in una giornata lavorativa scandita da interruzioni frequenti, il tempo effettivamente disponibile per il lavoro profondo si riduce drasticamente.
I dati più recenti confermano il quadro. Secondo il Work Trend Index di Microsoft del 2023, il 68% dei lavoratori dichiara di non avere sufficiente tempo di concentrazione ininterrotta durante la giornata. La Global Workplace Survey di Gensler del 2023 indica che il 70% degli impiegati in ambienti open plan riporta di essere regolarmente disturbato da conversazioni e rumori ambientali.
Gli open space, progettati con l’intenzione di favorire la collaborazione, sembrano amplificare il problema. Una ricerca di Ethan Bernstein e Stephen Turban pubblicata su Philosophical Transactions of the Royal Society nel 2018 ha documentato un paradosso interessante: negli uffici open plan le interazioni faccia a faccia diminuiscono di circa il 70%, mentre le email aumentano del 56%. Le persone, per proteggersi dal rumore, si isolano con le cuffie e comunicano digitalmente – vanificando proprio il beneficio collaborativo che l’open space avrebbe dovuto generare.
Flow: la scienza della concentrazione ottimale
Per comprendere come il design possa supportare la concentrazione, è utile riferirsi al framework teorico più solido disponibile: la teoria del flow, sviluppata dallo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi a partire dagli anni Settanta.
Csikszentmihalyi ha dedicato decenni a studiare quello che ha definito “esperienza ottimale” – uno stato di completo assorbimento in un’attività, caratterizzato da concentrazione intensa, perdita della percezione del tempo, e profonda soddisfazione intrinseca. È lo stato che gli atleti chiamano “essere nella zona”, che i musicisti descrivono come “suonare da soli”, che i programmatori riconoscono quando il codice “fluisce” senza sforzo apparente.
La ricerca di Csikszentmihalyi, condotta attraverso il metodo dell’Experience Sampling su migliaia di soggetti, ha identificato alcune condizioni necessarie per l’emergere del flow: obiettivi chiari, che permettano alla mente di orientarsi senza ambiguità; feedback immediato, che consenta di calibrare continuamente l’azione; equilibrio tra sfida e competenza, dove il compito è sufficientemente difficile da richiedere impegno ma non così arduo da generare ansia.
Tuttavia, queste condizioni sono necessarie ma non sufficienti. Esiste un prerequisito ambientale che la letteratura successiva ha chiarito: l’assenza di interruzioni esterne. Il flow è uno stato fragile. Una volta interrotto, non si ripristina istantaneamente. Gli studi indicano che sono necessari dai quindici ai venticinque minuti per recuperare lo stesso livello di immersione cognitiva.
Questo dato ha implicazioni dirette per il design degli spazi. In un ambiente dove le interruzioni avvengono con frequenza elevata, il flow non è difficile da raggiungere: è matematicamente impossibile.
Come progettare per le transizioni
Una lettura superficiale potrebbe suggerire che la soluzione sia semplicemente eliminare le fonti di distrazione – pareti più alte, uffici chiusi, silenzio imposto. Ma la ricerca più recente indica una direzione più sofisticata.
Un progetto condotto da NBBJ in collaborazione con l’Applied Research Consortium dell’Università di Washington, avviato nel 2024 e tuttora in corso, sta esplorando come il design possa non solo proteggere il flow, ma attivamente facilitarne l’insorgenza. L’ipotesi di partenza è che il flow non sia solo questione di assenza di disturbi, ma richieda specifiche condizioni ambientali che supportino le transizioni cognitive.
Il team di ricerca ha identificato un ciclo: il lavoratore non passa istantaneamente dalla distrazione alla concentrazione profonda. Esiste una fase di “shift” – un momento di reset mentale – che precede l’immersione. Progettare per il flow significa progettare anche per queste transizioni.
Gli elementi che sembrano facilitare lo shift includono il contatto con elementi naturali (quella che la letteratura chiama “biofilia”), la variazione controllata degli stimoli sensoriali, la possibilità di movimento fisico, l’esposizione alla luce naturale. Non si tratta di decorazione: sono interventi che agiscono sui meccanismi neurobiologici della regolazione attentiva.
Il prototipo sviluppato da NBBJ integra quello che i ricercatori chiamano “spatial nudges” – sollecitazioni ambientali che invitano al reset cognitivo. L’analogia utilizzata è quella dello smartwatch che ricorda di alzarsi dopo un’ora di sedentarietà: l’ambiente che ricorda di fare una pausa quando la mente è sovraccarica.
Activity-Based Working: la varietà come principio progettuale
Se il flow richiede condizioni specifiche, e se diversi tipi di lavoro richiedono diversi tipi di concentrazione, ne consegue che un unico ambiente non può supportare efficacemente tutte le modalità di lavoro.
Questo principio è alla base dell’Activity-Based Working, un approccio progettuale che struttura lo spazio non per funzioni gerarchiche (l’ufficio del direttore, l’open space degli operativi) ma per modalità di attività. Zone per il focus individuale, dove il silenzio è norma e le interruzioni sono scoraggiate. Aree per la collaborazione, dove la conversazione è benvenuta e la configurazione spaziale la facilita. Spazi di transizione, che permettono il reset tra una modalità e l’altra.
La logica è semplice: se durante una giornata un knowledge worker alterna fasi di concentrazione individuale, momenti di confronto con colleghi, call con interlocutori esterni, e pause rigenerative, l’ambiente dovrebbe offrire setting ottimizzati per ciascuna di queste attività. La scrivania unica e fissa – eredità dell’organizzazione tayloristica del lavoro – diventa un anacronismo.
Questo non significa che ogni azienda debba replicare lo stesso modello. L’Activity-Based Working efficace parte dall’analisi delle attività reali: quali task richiedono concentrazione prolungata? Quali beneficiano della prossimità fisica? Quali possono essere svolti ovunque? La risposta varia per settore, per cultura aziendale, per tipologia di ruoli.
Il design come segnale organizzativo
C’è un ultimo aspetto, forse il più sottile. Il modo in cui un’organizzazione progetta i propri spazi comunica qualcosa sulla sua cultura e sulle sue priorità.
Un ufficio che non prevede alcuno spazio per la concentrazione individuale comunica implicitamente che il lavoro profondo non è valorizzato – o che ci si aspetta venga svolto altrove, a casa, fuori orario. Un ambiente dove le interruzioni sono la norma segnala che la disponibilità immediata conta più della qualità del pensiero.
Viceversa, investire in spazi che proteggono e sostengono la concentrazione è un segnale organizzativo potente. Dice ai collaboratori: riconosciamo che il vostro lavoro richiede condizioni specifiche, e ci impegniamo a fornirle. In un mercato del lavoro dove l’attrazione e la retention dei talenti sono sfide strategiche, questo tipo di attenzione non è trascurabile.
Non si tratta di trasformare l’ufficio in una biblioteca. La collaborazione, lo scambio informale, la socialità restano componenti essenziali dell’esperienza lavorativa – e, come abbiamo discusso in precedenti articoli, sono proprio questi elementi a giustificare la presenza fisica in un’epoca di lavoro distribuito. Il punto è l’equilibrio: offrire la possibilità di collaborare quando serve e di concentrarsi quando serve, senza che una modalità cannibalizzi l’altra.
Conclusione: dalla quantità alla qualità dello spazio
Il passaggio all’hybrid working ha ridotto la quantità di spazio necessario. La sfida ora è aumentarne la qualità.
Progettare per il flow non è un esercizio estetico né un lusso per aziende con budget illimitati. È una scelta strategica che riconosce una verità semplice: in un’economia della conoscenza, la capacità di pensare bene è il principale fattore produttivo. E pensare bene richiede condizioni che lo permettano.
Gli spazi che abitiamo non sono neutri. Facilitano alcuni comportamenti e ne ostacolano altri, amplificano alcune capacità e ne attenuano altre. Comprendere questa relazione – e progettare di conseguenza – è oggi una competenza organizzativa tanto importante quanto la gestione finanziaria o lo sviluppo delle risorse umane.
La domanda per chi guida un’organizzazione non è se investire nel design degli spazi, ma quale tipo di lavoro quegli spazi dovranno sostenere nei prossimi anni. E se la risposta include il pensiero complesso, la creatività, la soluzione di problemi non banali, allora la progettazione per il flow non è un’opzione. È una necessità.
Fonti:
– Csikszentmihalyi, M. (1990). *Flow: The Psychology of Optimal Experience*. Harper & Row.
– Mark, G., Gudith, D., & Klocke, U. (2008). “The Cost of Interrupted Work: More Speed and Stress.” *Proceedings of the SIGCHI Conference on Human Factors in Computing Systems*. https://ics.uci.edu/~gmark/chi08-mark.pdf
– Microsoft (2023). “Work Trend Index: Will AI Fix Work?” https://www.microsoft.com/en-us/worklab/work-trend-index/will-ai-fix-work
– Gensler Research Institute (2023). “Global Workplace Survey Comparisons.”
– Bernstein, E. S., & Turban, S. (2018). “The impact of the ‘open’ workspace on human collaboration.” *Philosophical Transactions of the Royal Society B*, 373(1753). https://royalsocietypublishing.org/doi/10.1098/rstb.2017.0239
– NBBJ & University of Washington Applied Research Consortium (2024-2025). “Facilitating Flow State and Restoration in Post-Pandemic Creative Workspaces.” https://arc.be.uw.edu/project/how-environmental-factors-facilitate-the-flow-in-workplaces/


