Place Identity negli Uffici Hybrid: Progettare Flessibilità Senza Perdere Appartenenza

Da qualche anno l’hot desking e le postazioni non assegnate si sono diffusi rapidamente negli uffici corporate. I vantaggi sono evidenti e allineati alle nuove modalità di lavoro: se i dipendenti vengono in ufficio due o tre volte a settimana, mantenere 1.000 scrivanie dedicate per 1.000 persone è uno spreco di risorse reali – spazio, costi, energia. La necessità di organizzare il “nuovo ufficio” in modo più efficiente non è in discussione.

Eppure, la ricerca empirica documenta un disagio diffuso e misurabile tra chi lavora in questi ambienti. L’80% dei lavoratori di ufficio riporta che le postazioni non assegnate impattano negativamente sul loro benessere psicologico. Ci sono studi su migliaia di lavoratori che mostrano aumenti significativi di stress, senso di spaesamento, difficoltà relazionali con i colleghi.

Non è nostalgia per il “vecchio ufficio”. La Place Identity Theory – sviluppata negli anni ’70 dallo psicologo ambientale Harold Proshansky – offre una spiegazione scientifica del fenomeno: gli spazi fisici non sono mai neutri. Diventano parte della nostra identità professionale, ancoraggi cognitivi che strutturano il nostro senso di appartenenza e competenza.

La domanda per chi progetta workplace non è “tornare indietro”, ma: come possiamo progettare flessibilità senza cancellare identità?

Place Identity Theory: Quando i luoghi diventano parte di noi

Nel 1978, Harold Proshansky introduce il concetto di place identity, definendola come “quelle dimensioni del sé che definiscono l’identità personale di un individuo in relazione all’ambiente fisico attraverso un complesso pattern di idee, sentimenti, valori, obiettivi, preferenze e tendenze comportamentali.

In altre parole: i luoghi in cui viviamo e lavoriamo non sono sfondi neutri, ma componenti attive della nostra identità. La scrivania dove lavoriamo ogni giorno, l’ufficio che personalizziamo con foto e oggetti, lo spazio che “riconosciamo come nostro” – questi elementi diventano estensioni del sé professionale.

La teoria identifica diverse funzioni della place identity:

  • Riconoscimento: lo spazio fornisce continuità e stabilità al senso di sé
  • Significato: il luogo comunica agli altri (e a noi stessi) chi siamo professionalmente
  • Espressione: attraverso la personalizzazione dello spazio esprimiamo la nostra identità
  • Difesa dall’ansia: avere “un proprio posto” riduce l’incertezza e lo stress

Negli anni 2000, Kimberly Elsbach applica questa teoria agli ambienti di lavoro. Il suo studio del 2003, pubblicato su Administrative Science Quarterly, analizza cosa succede quando un’organizzazione elimina gli uffici territoriali e introduce postazioni condivise.

I risultati sono chiari: la perdita della possibilità di personalizzare uno spazio minaccia l’identità professionale. Gli impiegati riportano difficoltà nell’affermare la propria “distintività” – quella dimensione dell’identità che ci rende unici rispetto ai colleghi. Non poter esporre oggetti personali, foto, diplomi, non significa solo perdere il “comfort” di uno spazio familiare, ma perdere i marcatori fisici che comunicano “chi sono io in questa organizzazione”.

L’hot Desking: quali sono i numeri del disagio

La teoria trova conferma empirica in una mole crescente di studi sugli impatti negativi delle postazioni non assegnate.

Morrison e Macky (2017), in uno studio su 1.000 lavoratori australiani pubblicato su Applied Ergonomics, documentano che l’hot desking produce:

  • Aumento della sfiducia tra colleghi
  • Incremento di distrazioni e comportamenti non cooperativi
  • Relazioni interpersonali più negative
  • Diminuzione della percezione di supporto da parte dei supervisori

Millward, Haslam e Postmes (2007), in Organization Science, mostrano che chi lavora in spazi non assegnati sperimenta uno spostamento nell’identificazione: diminuisce il senso di appartenenza al team e aumenta un’identificazione più astratta con “l’organizzazione”. Il risultato? Perdita di Identità a livello di gruppo di lavoro, con conseguente marginalizzazione, indifferenza verso i colleghi, e ridotto commitment organizzativo.

Un’indagine Savills del 2019 su 11.000 office workers europei rivela che il 45% di chi lavora in hot desking riporta un calo di produttività. Il dato sale dal 31% del 2016, suggerendo che le persone non si “abituano” al sistema, ma anzi sperimentano crescente disagio.

La ricerca Brickendon (2019) su oltre 1.000 impiegati britannici identifica le principali fonti di stress:

  • 44% lamenta la perdita di tempo quotidiana nel setup della postazione
  • 31% riferisce stress nella ricerca di una scrivania disponibile
  • 22% segnala difficoltà nel costruire legami con i colleghi
  • 80% afferma che le postazioni non assegnate impattano negativamente sul benessere psicologico

Non è un problema marginale. È un pattern consistente attraverso culture, settori, e metodologie di ricerca diverse.

Identity Threat: Cosa succede dentro di noi

La Place Identity Theory spiega perché questi dati non sorprendono. Quando l’ambiente di lavoro rimuove la possibilità di “ancorare” la propria identità professionale a uno spazio, si verifica quello che Elsbach definisce identity threat – una minaccia alla capacità di affermare chi siamo in quel contesto.

Tre caratteristiche rendono la place identity particolarmente vulnerabile negli ambienti non territoriali:

  1. Struttura di appartenenza assoluta, non graduale
    Non si tratta di status (“ho un ufficio più grande del tuo”), ma di distintività (“questo sono io”). È una categoria identitaria binaria: o hai uno spazio che ti rappresenta, o non ce l’hai. Non ci sono sfumature.
  2. Alta rilevanza soggettiva e personale
    Per molte persone, lo spazio di lavoro è il luogo dove passano la maggior parte del tempo da svegli. La scrivania personalizzata – con foto dei figli, diplomi, oggetti significativi – non è un “vezzo”, ma un modo di portare il proprio sé completo al lavoro.
  3. Dipendenza da marcatori fisici
    A differenza di altre dimensioni identitarie (competenze, ruolo, relazioni) che possono essere affermate attraverso comportamenti e interazioni, la place identity richiede spazio fisico. Quando questo viene rimosso, non ci sono facilmente “sostituti”.

Il risultato è una forma specifica di stress psicologico: l’impossibilità di auto-rappresentarsi. Come scrive Elsbach, i dipendenti in uffici non territoriali devono costantemente “negoziare” la propria presenza, cercare modi alternativi di comunicare identità, investire energia cognitiva in tattiche di affermazione che prima erano automatiche.

Design Implications: Territorialità e Flessibilità non sono opposti

La soluzione non è tornare agli uffici assegnati uno-a-uno. Ma nemmeno ignorare il bisogno umano di place identity. Tre direzioni chiave derivano dalla ricerca:

Personalizzazione Temporanea e Accumulo di Familiarità

Anche se le postazioni ruotano, il design può supportare forme di appropriazione spaziale:

  • Locker personalizzabili: spazi dove custodire oggetti personali e “trasportare” la propria identità
  • Setting ricorrenti: sistemi di prenotazione che permettono di tornare a postazioni familiari
  • Superfici configurabili: possibilità di adattare ergonomia, illuminazione, privacy in modo rapido

L’obiettivo non è ricreare “la scrivania permanente”, ma permettere accumulo progressivo di familiarità con alcuni luoghi, riducendo la sensazione di “nomadismo perpetuo”.

Neighborhoods e Team-Based Territoriality

Invece di assegnare scrivanie individuali, molte organizzazioni stanno sperimentando territorialità di gruppo:

  • Zone dedicate a team specifici (anche se le singole postazioni ruotano)
  • Prossimità garantita ai membri del proprio gruppo di lavoro
  • Possibilità di personalizzare l’ambiente collettivo (lavagne, materiali di progetto, atmosfera)

Questo approccio risponde al dato di Millward: se l’hot desking indebolisce l’identificazione con il team, ricostruire territorialità a livello di gruppo può mitigare l’effetto.

Anchor Points e Third Places

Non tutti gli spazi devono essere flessibili. Il design può prevedere:

  • Anchor points: luoghi fissi e riconoscibili dove “ritrovarsi” (la caffetteria del team, la sala riunioni abituale)
  • Spazi identitari collettivi: aree che rappresentano l’identità del gruppo/dipartimento attraverso artefatti, progetti, storia condivisa
  • Zone di transizione: spazi di decompressione all’ingresso dove “prepararsi” psicologicamente alla giornata e “chiudere” a fine lavoro

L’idea è che non tutto deve essere fluido. Alcuni ancoraggi spaziali stabili permettono di tollerare meglio la flessibilità in altre zone.

Conclusione: Ripensare la Proprietà dello Spazio

La place identity ci ricorda che l’identità professionale non è solo mentale – è anche spaziale. Quando progettiamo uffici che ottimizzano l’uso dello spazio fisico, dobbiamo chiederci: stiamo ottimizzando anche l’uso psicologico di quello spazio?

L’hot desking funziona magnificamente per alcune categorie di lavoratori: consulenti sempre in movimento, team altamente mobili, ruoli che richiedono minimal presenza fisica. Ma applicato indiscriminatamente, crea un costo nascosto: erosione del senso di appartenenza, aumento dello stress cognitivo quotidiano, indebolimento dei legami di team.

La sfida del workplace design nell’era hybrid non è scegliere tra efficienza economica e benessere psicologico. È progettare sistemi che ottengono entrambi, riconoscendo che le persone hanno bisogno di ancoraggi identitari anche – anzi, soprattutto – in ambienti sempre più fluidi.

Come scrive Proshansky, la place identity “fornisce significato e scopo all’esperienza quotidiana”. Nel lavoro hybrid, dove già navighiamo incertezza su quando, dove e come lavorare, forse abbiamo bisogno di più certezza spaziale, non di meno.

Massimiliano Notarbartolo

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