L’Ufficio è una batteria sociale: La Neuroscienza spiega perché ne abbiamo bisogno

Forse abbiamo scoperto che andare in ufficio in qualche modo segnala una necessità biologica? Un bisogno scritto nel nostro DNA? Dopo anni di dibattito sul lavoro da remoto, mentre molti professionisti scelgono spontaneamente di tornare in presenza, la neuroscienza ci offre una prospettiva inattesa: l’ufficio potrebbe funzionare come una batteria sociale che il nostro cervello richiede per funzionare al meglio.

Siamo Cablati per la Connessione

Matthew Lieberman, neuroscienziato sociale dell’UCLA e pioniere nello studio del cervello sociale, ha prodotto ricerche che ribaltano molte delle nostre certezze. Nel suo lavoro “Social: Why Our Brains Are Wired to Connect”, Lieberman arriva a sostenere che il bisogno di connettersi con altre persone è più fondamentale del bisogno di cibo o riparo. Un’affermazione che può sembrare estrema, ma che i suoi studi con risonanza magnetica funzionale dimostrano essere meno provocatoria di quanto sembri.

Il cervello umano dedica risorse straordinarie al mondo sociale. Lieberman ha calcolato che entro i dieci anni di età, ognuno di noi ha già investito circa diecimila ore nell’apprendimento delle dinamiche sociali, nell’interpretazione degli altri e nella comprensione dei gruppi. È lo stesso tempo che Malcolm Gladwell ha identificato come necessario per padroneggiare qualsiasi competenza complessa. La differenza? Questo apprendimento sociale avviene in modo così naturale che non ci rendiamo nemmeno conto di quanto sia sofisticato.

L’elemento che ci sorprende di più delle ricerche di Lieberman riguarda il dolore sociale. Gli studi con neuroimaging hanno dimostrato che il cervello processa il rifiuto sociale e l’isolamento attraverso gli stessi pathway neurali utilizzati per il dolore fisico. Non è una metafora poetica: quando diciamo che un’esclusione “fa male”, stiamo descrivendo un fenomeno neurologico reale e misurabile. Il cervello non distingue tra essere lasciati soli e subire un danno fisico.

Zoom non basta secondo Yale

Se il bisogno sociale è così profondamente radicato nel nostro sistema nervoso, quanto può davvero sostituirlo la tecnologia? Joy Hirsch, neuroscienziata di Yale, ha cercato di rispondere a questa domanda con uno studio pubblicato nel 2023 sulla rivista “Imaging Neuroscience”. I risultati sono inequivocabili e, per molti versi, inquietanti.

Utilizzando tecnologie di neuroimaging sofisticate, Hirsch ha monitorato in tempo reale l’attività cerebrale di coppie di persone impegnate in conversazioni. Quando le persone interagivano faccia a faccia, emergeva quella che lei stessa ha definito “un’intricata coreografia di attività neurale” nelle aree del cervello dedicate alle interazioni sociali. Quando le stesse persone conversavano su Zoom, il paesaggio neurologico cambiava drasticamente.

La segnalazione neurale durante gli scambi online risultava sostanzialmente soppressa rispetto all’attività osservata nelle conversazioni in presenza. Differenze non marginali: i ricercatori hanno rilevato sguardi prolungati, diametri pupillari maggiori e una coordinazione neurale significativamente più intensa tra i cervelli delle persone che interagivano fisicamente. La conclusione di Hirsch è stata netta: “Zoom sembra essere un sistema di comunicazione sociale impoverito rispetto alle condizioni in presenza.”

Le rappresentazioni online dei volti, almeno con la tecnologia attuale, non hanno lo stesso “accesso privilegiato” ai circuiti neurali sociali del cervello che caratterizza le interazioni reali. Non è questione di abitudine o di resistenza al cambiamento: è biologia.

L’Ossitocina: La Chimica della Presenza

Ma cosa succede esattamente nel nostro corpo quando siamo fisicamente vicini ad altre persone? La risposta coinvolge l’ossitocina, un neuropeptide che ha un ruolo centrale nella regolazione del legame sociale e dell’affiliazione. Studi condotti durante la pandemia hanno dimostrato che il contatto fisico affettuoso è associato a livelli più elevati di ossitocina endogena, con effetti misurabili sulla riduzione dello stress sia a livello soggettivo che ormonale.

L’ossitocina non è semplicemente l'”ormone dell’amore” come viene spesso banalizzata nei media. È un sistema di segnalazione complesso che aumenta l’interesse sociale, migliora il riconoscimento delle emozioni altrui e viene rilasciata durante il tocco e la vicinanza fisica. Ricerche dimostrano che questo rilascio dipende dal contesto sociale: l’ossitocina risponde alla qualità percepita dell’interazione, alla vicinanza emotiva con l’altra persona, alla presenza fisica condivisa.

E qui viene fuori il limite fondamentale della comunicazione virtuale: questi meccanismi biochimici che facilitano il legame sociale, riducono lo stress e promuovono il benessere non si replicano attraverso uno schermo. La presenza fisica non è un optional nostalgico, è il prerequisito per attivare sistemi evolutivi antichi che regolano il nostro equilibrio psicofisico.

L’Ufficio fa Convergere più Interessi

Oggi che abbiamo la scelta e non più l’obbligo di frequentare l’ufficio, molti professionisti scoprono di esserne attratti per ragioni che vanno oltre la produttività misurabile. C’è qualcosa nell’esperienza dell’ufficio che ci ricarica, che genera dentro di noi quell’energia che avvertiamo come passione, voglia, motivazione – e che ha molto a che fare anche con la performance lavorativa.

Tra le tante funzioni che sono state attribuite all’ufficio nel corso del tempo – luogo di controllo, simbolo di status, spazio di collaborazione – questa prospettiva neuroscientifica introduce un elemento nuovo e suggestivo. L’ufficio non serve solo come luogo per svolgere il lavoro e quindi per contribuire al fatturato aziendale, ma come spazio in cui tutti gli interessi convergono: quelli economici dell’organizzazione e quelli biologici delle persone.

Quando progettiamo spazi di lavoro, quando definiamo politiche di rientro, quando valutiamo l’efficacia del lavoro ibrido, stiamo in realtà prendendo decisioni che impattano su meccanismi neurobiologici profondi. Non parliamo di metri quadri, ergonomia o tecnologia. È una questione di come permettiamo al cervello umano di fare quello per cui è stato progettato: connettersi, collaborare, prosperare nel gruppo fisico.

La Batteria che si ricarica solo in Presenza

Non è che “torniamo in ufficio”. È che il nostro cervello, progettato da milioni di anni di evoluzione per prosperare nel gruppo fisico, ha bisogno di ricaricare la batteria sociale. E quella batteria si ricarica solo in presenza. Le videochiamate possono trasmettere informazioni, ma non possono attivare quella coreografia neurale complessa, quel rilascio di ossitocina, quella sincronizzazione tra cervelli che emerge spontaneamente quando condividiamo lo stesso spazio fisico con altre persone.

Forse la domanda giusta da porsi non è più “quanto tempo dobbiamo stare in ufficio?” ma “come progettiamo spazi che rispondono a questa necessità biologica di connessione?”. La scienza ci sta mostrando che l’ufficio del futuro non sarà né completamente fisico né completamente virtuale, ma dovrà riconoscere e rispettare il modo in cui il cervello umano è cablato per la socialità.

Massimiliano Notarbartolo

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